Lea Garofalo è stata una vittima della ‘ndrangheta, che l’ha uccisa il 24 novembre 2009. Il suo omicidio, però, non si deve solo alla sua scelta di collaborare con la giustizia, ma anche a quella di aver cercato una propria autonomia rispetto a uno schema famigliare tradizionale che l’avrebbe voluta sottomessa, complice, omertosa.
La storia di Lea Garofalo
Nata nel 1974 a Petilia Policastro, nell’attuale provincia di Crotone, in una famiglia della ‘ndrangheta, perde il padre per una faida. A 13 anni s’innamora del 17enne Carlo Cosco, che vive a Milano e appartiene a una famiglia affiliata alla cosca dei Garofalo. Lea conosce poco le vicende della ’ndrangheta del suo paese, ma quando, a 17 anni, partorisce la figlia Denise, si trasferisce a Milano per vivere con Cosco e spera di lasciarsi alle spalle il mondo calabrese. Non sarà così.
Proprio anche grazie alla parentela acquisita con Lea Garofalo, Cosco diventa un capo della criminalità calabrese a Milano. Ciò che avviene sotto gli occhi della donna la rende profondamente infelice e nel 1996, quando Cosco viene incarcerato, lei gli comunica l’intenzione di andarsene da casa. Lui reagisce con tale violenza da dover far intervenire le guardie penitenziarie. Lea si trasferisce comunque a Bergamo con la figlia, ma né suo fratello né la famiglia di Cosco accettano la scelta della separazione. Non è in gioco l’amore, ma l’onore. A ben vedere, a questo punto della storia il destino di Lea è già profondamente compromesso da un sistema che non accetta alcuna possibilità di emancipazione e libertà femminile.
Lea Garofalo, però, non si limita a questo. Nel 2000 e di nuovo nel 2002 riceve avvertimenti di stampo mafioso, dovuti a scelte che la cultura della ‘ndrangheta non tollera in una donna: le bruciano l’auto. Non solo: il fratello la picchia in piazza a Petilia Policastro. A quel punto Lea si rivolge ai carabinieri e comincia a raccontare ai magistrati ciò che sa. Desidera offrire un esempio positivo alla figlia Denise e spezzare ogni possibile futura catena della ’ndrangheta.
Gli anni che seguono sono difficili: nell’anonimato e in solitudine, madre e figlia si spostano continuamente in case protette. Sono anni di paura. Lea è ammessa nel programma di protezione insieme alla figlia e trasferita a Campobasso, ma nel 2006 la protezione viene rievocata. Viene riammessa nel programma nel 2007, poi però nel 2009 decide di rinunciare volontariamente a ogni tutela e di tornare a Petilia Policastro, per poi trasferirsi di nuovo a Campobasso in una casa procurata proprio dall’ex compagno Carlo Cosco.
Sembra un scelta contradditoria e incomprensibile, ma Lea Garofalo è sfiduciata: alle sue dichiarazioni non è mai seguito un processo, non ha un lavoro e non è tranquilla a uscire di casa. Tutto questo la porta a riavvicinarsi al coniuge. Secondo gli inquirenti, cerca di arrivare ad un compromesso in grado di salvarla.
Una lettera scritta al Presidente della Repubblica il 28 aprile 2009 ci racconta il suo stato d’animo:
«Oggi mi ritrovo, assieme a mia figlia isolata da tutto e da tutti, ho perso tutto, la mia famiglia, ho perso il mio lavoro (anche se precario) ho perso la casa, ho perso i miei innumerevoli amici, ho perso ogni aspettativa di futuro, ma questo lo avevo messo in conto, sapevo a cosa andavo incontro facendo una scelta simile. Quello che non avevo messo in conto e che assolutamente immaginavo, e non solo perché sono una povera ignorante con a mala pena un attestato di licenza media inferiore, ma perché pensavo sinceramente che denunciare fosse l’unico modo per porre fine agli innumerevoli soprusi… La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi spetta, dopo essere stata colpita negli interessi materiali e affettivi arriverà la morte!».
Pochi giorni dopo avvengono la prima aggressione e il primo tentativo di rapimento, sventati dalla figlia Denise. Qualche mese dopo, Lea Garofalo cerca l’ex compagno per chiedergli di contribuire al mantenimento della figlia. Lui le chiede di raggiungerlo a Milano e Lea accetta. Proprio a Milano, però, viene uccisa. Il cadavere viene bruciato. Nel 2012 i suoi resti di Lea sono ritrovati vicino Monza, grazie alla testimonianza di uno dei suoi aguzzini. Nel marzo 2012, sono state condannate all’ergastolo diverse persone e Carlo Cosco è stato riconosciuto come il mandante dell’omicidio.
Vittima di mafia e di genere
Lea è stata una testimone di giustizia, ma anche una donna che ha cercato di costruire una nuova vita, non solo per sé, ma anche per la figlia. Lo Stato, però, l’ha trattata più come una “pentita”, a cui concedere uno sconto della pena, che come una “testimone”. La ‘ndrangheta l’ha punita per il doppio tradimento: per non aver ceduto, come moglie di boss, alla richiesta di complicità omertosa e per aver cercato di percorrere la via del cambiamento, dell’autodeterminazione e dell’emancipazione femminile nella sfera privata.
Ho inserito la storia di Lea Garofalo nella sceneggiatura della narrazione-spettacolo in programma per la serata del 23 maggio 2025 al parco Amendola di Modena. Per l’evento è stato scelto il giorno in cui cade il 33° anniversario della strage di Capaci, ma Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono gli unici protagonisti. Per meglio raccontare il senso della lotta alle mafie, vengono raccontate anche le storie di vita di chi fece opposizione dal basso (Peppino Impastato), di un sindacalista e politico (Pio La Torre) e di due testimoni di giustizia, ovvero Rita Atria e, appunto, Lea Garofalo. La narrazione-spettacolo è curata da me, Paola Gemelli, e da Daniel Degli Esposti e vedrà sul palco anche Federico Benuzzi, impegnato in letture attoriali, e Lucia Dall’Olio che accompagnerà con musiche.

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