Ritengo si parli ancora troppo poco di resistenza civile, ovvero di tutto quell’insieme di scelte, azioni e attività che, pur entrando in conflitto con la guerra e il dominio nazista, non si avvalsero di armi. Accompagnando la resistenza armata, a volte precedendola, uomini e donne (soprattutto) misero in campo coraggio, creatività, duttilità, intelligenza per aggirare la violenza del nemico e manovrare le situazioni, ostacolando o non collaborando con chi portava avanti un’idea di guerra all’ultimo sangue. Con metodi nonviolenti si agì per risparmiare vite e accelerare la fine di quel massacro.
Non faccio mai un trekking storico senza il mio zaino decorato della resistenza civile contemporanea. La resistenza civile e la nonviolenza sono uno dei miei temi preferiti. Di resistenza civile ho anche scritto recentemente in una pubblicazione dal titolo La pianura dei ribelli. Lotte sociali e movimento di liberazione a Medicina: 1943-1945 (vedi la sezione progetti) dedicata alla zona di Medicina (BO), dalla quale riporto – appena adattate – le righe che seguono. Si tratta di una storia al femminile, che pare anche capovolgere il luogo comune degli uomini che si ergono a difensori delle “loro” donne. Buona lettura!
Donne in prima fila per difendere gli uomini
Nel marzo 1944, come in tutta l’Italia occupata, nelle fabbriche bolognesi viene proclamato lo sciopero generale. Interrompendo la produzione per i tedeschi, si spera di accelerare la fine della guerra. Gli scioperi hanno anche altri fini: la protesta contro la deportazione coatta dei lavoratori e la rivendicazione di migliori condizioni salariali e maggiori razioni alimentari. Le astensioni dal lavoro si estendono dalle fabbriche alle campagne e si concludono a giugno con lo sciopero delle mondariso.
Secondo una testimonianza, il ciclo di proteste iniziato a marzo avrebbe avuto a Medicina una piccola anteprima già il mese precedente. Quel 20 febbraio 1944 una ventina di donne si era recata in municipio per chiedere l’aumento delle razioni alimentari, senza però ottenere nulla. Questa prima mobilitazione femminile, come un ulteriore tentativo fatto il 1° marzo, non sono ancora il frutto di un’organizzazione femminile matura, ma sono comunque il segno di un ribollire delle forze femminili.
Per mobilitare le donne, occorreva organizzare manifestazioni legate a obiettivi concreti, come il caro viveri e il mercato nero, e rispondere quindi ai loro bisogni immediati e specifici. Finalmente a marzo la precettazione per il trasferimento in Germania di gruppi di operai e lavoratori agricoli offre l’occasione giusta. La popolazione dell’Italia occupata reagisce con lotte sui posti di lavoro e manifestazioni di strada contro tedeschi e fascisti. In Emilia-Romagna le proteste si estendono dalle città alle campagne, con le donne in prima fila.
Le lavoratrici si trovano d’altra parte nella situazione peggiore: si tratta in tanti casi di donne che hanno i mariti al fronte, per le quali partire per la Germania significherebbe lasciare a casa i figli, senza genitori. A fronte delle rimostranze, a metà mese le autorità fasciste devono precisare che verranno esentate dalla precettazione le lavoratrici madri e le mondariso, in quest’ultimo caso anche per il bisogno di riso nei territori occupati. La protesta però non si ferma: si vuole che nessuno, uomo o donna che sia, venga deportato. Per le donne si tratta anche, come già all’indomani dell’8 settembre 1943, di difendere i giovani, che fossero loro figli, fratelli, mariti o neanche conoscenti. D’altra parte è ormai chiaro a molti e molte che la scelta della pace era stata impedita per responsabilità tedesca. Sono maturati disincanto e desiderio di libertà.
Le donne di Medicina invadono il Municipio

La mattina del 19 marzo 1944 si hanno manifestazioni a Granarolo dell’Emilia e a Medicina. Qui, dove il reclutamento tramite precettazione prevede di raggiungere 700 unità, le donne invadono il municipio, manifestando contro la precettazione degli operai da inviare in Germania, ma non solo: è infatti l’occasione per cominciare a porre sul tavolo le rivendicazioni delle mondine.
Maggiori dettagli su quanto accaduto quella mattina provengono da fonti della Guardia Nazionale Repubblicana, che registrano come
«durante la dimostrazione venne affermato che quest’anno le mondine non lavoreranno, qualora non siano adeguati i salari al costo attuale della vita e non vengano distribuiti i grassi e i copertoni per bicicletta».
Si tratta quindi di una protesta politica ed economico-sindacale insieme, come confermato anche dalle testimonianze di due delle organizzatrici, Gemma Bergonzoni e la mondina Maria Rambaldi: l’arrivo della cartolina per il lavoro forzato in Germania porta con sé un nuovo motivo di protesta, che non si sostituisce, ma si aggiunse alla questione irrisolta delle difficoltà alimentari e del caro viveri.
Si tratta certamente di temi molto sentiti, ma il successo numerico della manifestazione si deve anche allo sforzo organizzativo delle donne, che si attivano con un passaparola allargato alle frazioni. La giornata è propizia: il 19 marzo è infatti giorno di mercato e festa di San Giuseppe, per cui le donne possono arrivare davanti al municipio senza destare allarmi, confondendosi con la gente tra i banchi degli ambulanti.
Così quella domenica mattina la piazza di Medicina si riempie di donne di ogni età. Una delegazione – composta dalle stesse Bergonzoni e Rambaldi e da Ada Buttazzi e Ada Bertolini – riesce a farsi ricevere dal commissario prefettizio Solofrizzo e avanza richieste rivolte ad evitare la partenza dei propri uomini, ma anche ad ottenere una maggiore distribuzione dei generi razionati, in particolare grano e grassi. Le altre donne, che volevano comunque essere presenti, si fermano rumoreggiando sotto il porticato e lungo le scale e il corridoio del primo piano del palazzo. Il commissario si impegna per la distribuzione dei viveri, ma non dà garanzie sull’annullamento della precettazione, in quanto materia fuori dalle sue competenze. Promette comunque di fare un tentativo presso le autorità provinciali e di riferire la risposta ad un incontro che fissa per il martedì successivo.

«Ce la sbrogliamo da sole»
Il 21 marzo, alle 9.30, le donne si radunano nuovamente davanti al municipio, arrivando a piccoli gruppi per rispettare l’ordinanza che, proprio allo scopo di scongiurare atti o propositi organizzativi di ribellione, vieta di circolare in più di 3 persone insieme. Le massaie e le braccianti di Medicina attendono la risposta promessa dal commissario, ma nel momento in cui cercano di salire per incontrarlo si trovano di fronte guardie armate. Non si perdono d’animo e, quando le prime che si affacciano all’uscio del commissario vengono respinte violentemente, decidono di salire tutte insieme.
Una giovane, figlia di Maria Rambaldi, si fa avanti:
«Vittoria fu la prima a rompere lo sbarramento e lo fece in modo curioso: passò sotto le gambe aperte del maresciallo di guardia e poi, passata dietro, cominciò a trascinarsi il maresciallo tirandolo per il cinturone. Altre l’aiutarono e la guardia fu trascinata indietro dalla folla di donne e fu così che il municipio fu occupato».
Si tratta di un atto particolarmente significativo, come segnalato anche dal comando militare tedesco, che nel rapporto del 14 aprile 1944, ricordando l’invasione della sede municipale a Medicina, la considera «un sintomo significativo della crescente opposizione della masse italiane al reclutamento per i tedeschi».
Al precipitare della situazione, arrivano rinforzi dai comuni vicini: in particolare è informato dell’assembramento il reggente del locale Partito fascista repubblicano, Marchesini, che parte da Budrio con una squadra.
Nonostante gli spari in aria dei fascisti che hanno circondato il municipio e che alcune donne avessero preferito uscire, quelle rimaste dentro cercano comunque di avanzare le loro richieste e di avere risposte. Quando il commissario esce dal suo ufficio e poi dal municipio, scortato dai carabinieri e senza dare risposta, le donne cercano di uscire a loro volta, ma trovano le porte chiuse. Marchesini ha infatti deciso di bloccarle all’interno dell’edificio.
Mentre si fa largo tra la folla, una donna della frazione di Fiorentina gli si rivolge in malo modo e rimedia uno schiaffo. Alla reazione aggressiva delle altre, i militi sparano alcuni colpi di pistola che colpiscono il soffitto del chiostro. La tensione è acuita dal fatto che chi si trova dentro non sa cosa sta succedendo fuori e viceversa. Il rumore degli spari alimenta la tensione. Una cosa è certa: le donne rimaste dentro non hanno intenzione di cedere:
«si udiva un gran trambusto, i fascisti gridavano alle donne che avessero mandato i loro mariti a discutere, e la voce dell’Ada Buttazzi, acuta su tutte, rispondere che esse se la sarebbero sbrogliate da sole».
Vittoria!
Passa del tempo, nell’angoscia. Quando i militi concedono la libertà alle donne che hanno bambini da allattare e accudire, a patto di avere prove in merito, si crea un viavai di nonne coi nipotini. Dopo mezzogiorno, qualcuno porta del pane per le donne che ancora si trovano all’interno. Arrivano infine il capo della Provincia e il questore, accompagnati da ufficiali tedeschi, e camionette di poliziotti e i militi, che annotano i nomi delle donne più infervorate. Le donne vengono trattenute fino a metà pomeriggio, poi vengono lasciate libere tutte, tranne quattro.
Maria Rambaldi, Nilde Cuscini, Emma Cappelletti ed Elves Cervellati, mondina di Fiorentina, vengono prelevate e interrogate dal questore. A Maria Rambaldi vengono chiesti i nomi degli uomini che hanno organizzato le manifestazioni, ma la donna non parla. In serata tutte e quattro vengono quindi prelevate da una squadra di fascisti, caricate su un camion della Croce rossa e condotte alla Questura di Bologna, dove prosegue l’interrogatorio.
A quel punto Maria Rambaldi spiega lo scopo della manifestazione. Le donne vengono quindi trasferite, a piedi, alle carceri di San Giovanni in Monte. Sono sistemate dentro una piccola cella dove già ci sono altre donne, arrestate per motivi simili. Alla minaccia di essere successivamente trasferite alle Caserme rosse, una struttura bolognese utilizzata come campo di smistamento per le persone rastrellate, non viene dato seguito, grazie all’opposizione di una suora.
Nella notte del 21 marzo la polizia arresta inoltre Bruno Canè, Mario Gulmanelli, Settimo Cattani, Alfredo Rossi e altri uomini, mariti o padri delle manifestanti. Vengono liberati il 7 aprile. Le donne invece sono lasciate libere dopo sei giorni. Rientrate a Medicina, scoprono che la loro lotta ha avuto successo: i loro uomini non sono partiti – e non sarebbero più partiti – per la Germania.
Dall’antifascismo di poche a un movimento di massa
Tirando le somme e al di là del risultato ottenuto nell’immediato, è indubbio che – se guardiamo ai 20 mesi nel loro complesso – le manifestazioni di marzo hanno segnato un momento importantissimo, nel quale dall’antifascismo di poche si passò a un movimento di massa, determinato dall’ingresso di nuove forze. Come spesso accade in questi casi, non è semplice quantificare il numero di donne coinvolte, perché le fonti non concordano: per il 19 marzo, il notiziario della GNR segnalava la presenza di 100 donne, per il 21 marzo ne venivano indicate 200, mentre le testimonianze delle protagoniste citate riferiscono di 400/500 donne. Se le fonti fasciste possono aver avuto interesse a ridurre i numeri per non destare il malcontento da parte tedesca, va anche detto che dall’altra parte le memorie personali rilasciate a distanza di tempo e l’orgoglio di quanto fatto possono aver ingigantito le dimensioni delle manifestazioni.
Al di là dei numeri, è però indubbio che tali proteste rappresentarono un significativo movimento di massa e un momento di svolta decisivo. Come accaduto anche in altri paesi dell’Emilia-Romagna, le manifestazioni di marzo a Medicina furono atti pre-insurrezionali, durante i quali si giunse allo scontro diretto con fascisti e tedeschi, con richieste politiche. Fu la dimostrazione che c’erano le condizioni per creare un ancor più ampio movimento di massa.
Nel rilanciare i fatti di Medicina, cercando un coinvolgimento sempre più ampio di donne, la stampa clandestina fece leva su motivazioni legate prima di tutto al desiderio di porre fine alla guerra e al terrore e a quello di ritrovare la libertà. Rimaneva nell’ombra la questione di un diverso e più equo rapporto tra i sessi, tuttavia presente in tanti documenti dei GDD, che richiamavano motivi emancipazionisti come la parità salariale e il diritto di voto. L’esperienza della mobilitazione femminile portava comunque con sé, con l’orgoglio di fare da sole, magari giusto “coadiuvate dagli uomini”, la crescita di un sentimento di parità, che darà i suoi frutti nel dopoguerra con la prefigurazione di una società più giusta anche sul piano della relazione tra i sessi.
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